11.45 del 14 luglio 1948, Palmiro Togliatti usciva da Montecitorio, quattro colpi di pistola.
Erano passati tre mesi dalle prime elezioni politiche della storia repubblicana; la Democrazia Cristiana aveva sconfitto i comunisti, e il clima era ancora molto teso.
Togliatti sopravvisse, ma per poco sembrò iniziare la guerra civile. Per le strade e i compagni sembrò la rivoluzione.
Nei giorni successivi ci furono violenti scontri tra polizia e manifestanti: morirono 30 persone e altre 800 furono ferite.
A sparare, Pallante uno studente di giurisprudenza fuoricorso di 24 anni. Alle elezioni aveva votato per il Blocco Democratico Liberal Qualunquista, un piccolo partito nato dal movimento Fronte dell’Uomo Qualunque. Aveva comprato una pistola ed era partito da Randazzo, in Sicilia. L’obiettivo era preciso uccidere Togliatti; già il 13 luglio, aveva tentato di farsi ricevere dal segretario del PCI in via delle Botteghe Oscure.
Togliatti era appena uscito dal palazzo insieme alla compagna Nilde Iotti. 3 colpi e Togliatti cadde a terra, poi il quarto quando già era disteso. Fu portato d’urgenza al Policlinico. Intanto il direttore dell’Unità Pietro Ingrao fece uscire un’edizione straordinaria del quotidiano, per raccontare dell’attentato.
Si pensava che sarebbe morto; era stato colpito alla testa e aveva perso molto sangue. Alla notizia ci furono le prime manifestazioni spontanee, e moltissime persone si radunarono fuori dall’ospedale. La CGIL indisse uno sciopero generale.
Le manifestazioni si susseguirono in tutto il paese; si chiedevano le dimissioni del governo. Molti i militanti comunisti che vedevano un’occasione per far cominciare una rivoluzione. Dal giorno successivo parteciparono ai cortei armati: molti possedevano ancora le armi usate nella lotta partigiana. Ci furono scontri con la polizia, morti, feriti e migliaia di arresti; fu mobilitato anche l’esercito.
Non appena si riprese dall’operazione chirurgica, Togliatti invitò i dirigenti del Partito a interrompere le manifestazioni per evitare che finisse male. Già il 15 luglio Giuseppe Di Vittorio, il capo della CGIL, interruppe lo sciopero generale.
In quei giorni intanto, sulle strade del Tour, Gino Bartali, già di anni 34, faticava a tenere il passo dei più giovani. L’ultima vittoria italiana al Tour risaliva a dieci anni prima, quando lui aveva indossato la maglia gialla per le strade di Parigi. Ripetere l’impresa? Impossibile.
Gino era stato uno dei più grandi atleti italiani di sempre, ma aveva perso i meglio anni della sua carriera a causa della guerra.
Si seppe solo dopo che Gino aveva continuato ad allenarsi in bicicletta trasportando, all’interno della canna, fotografie e documenti per dare una falsa identità a un po’ d’ebrei e permetter loro di scappare.
«Il bene si fa, ma non si dice»
Nessuno, insomma, avrebbe scommesso una lira, sul vecchio Bartali. ma non avevano ancora fatto i conti con il cuore di un campione.
Il giorno successivo all’attentato andò in scena una cosa che rimarrà nei libri di storia.
Si dice che la sera del 15 luglio, nella sua camera d’albergo squillò il telefono; all’altro capo c’era Alcide De Gasperi, il presidente del consiglio. Cosa si siano detti di preciso non si è mai saputo. Immaginiamo:
“Vinci questo Tour. Gino, fallo per favore. Fallo per te stesso, fallo per questo maledetto Paese. Ti prego, torna in Italia con la maglia gialla.”
Il giorno dopo Bartali montò in sella alla sua bicicletta e prese quella maglia, che portò fino a Parigi, facendo incazzare un po’ tutti i francesi.
Rientrato in Italia trionfante, venne accolto da De Gaspari, che chiese al corridore fiorentino cosa avrebbe voluto come regalo.
«Mi permetta signor Presidente, se fosse possibile vorrei non pagare più le tasse».
Testo: Andrea Natile
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Categorie: Sport

Andrea Natile

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