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«Gli americani scappavano con quegli elicotteri con i fari, la gente ci si attaccava e veniva ributtata di sotto. All’ambasciata americana c’era il caos. Quella notte sentivi la Storia. […] E quando vidi i primi carri armati entrare nella città, e la prima camionetta carica di ribelli, di vietcong, venire giù per rue Catinat con loro che urlavano Giai Phong! Liberazione! per me era la Storia. Piansi. Non soltanto all’idea che la guerra era finita, ma perché sentivo la Storia. Quella era la Storia. E infatti, a ripensarci trent’anni dopo, quel giorno ha cambiato la storia dell’Indocina.»
Tiziano Terzani è nato nel ’38 in via Pisana, fuori porta San Frediano a Firenze, sulla riva sinistra dell’Arno. Il padre partigiano comunista, riusciva a malapena ad arrivare al 20 del mese nella sua piccola officina meccanica, vicino a Porta Romana, la madre cappellaia.
Un giorno alle medie, avvenne una svolta decisiva, il maestro mandò a chiamare i suoi genitori.
“Guardate, dovete fare dei sacrifici. Lo dovete mandare al ginnasio”.
Questi s’impegnarono col Monte di Pietà per comprargli a rate i pantaloni lunghi, per mandare Tiziano al Galileo. Si diplomerà brillantemente nel 1957.
Già dal 1955 per guadagnare qualche soldo cominciò a seguire le corse podistiche per il Mattino, le gare in bicicletta e le partite di calcio dei Dilettanti, muovendosi con la Vespa 98 di suo padre.
«Diventai giornalista perché alle corse podistiche arrivavo sempre ultimo… e una volta, alla fine di una di quelle in cui ero davvero arrivato quando il pubblico era già andato via, venne da me un signore con un taccuino in mano e mi disse: «Sei studente? E allora, perchè invece di arrivare ultimo alle corse, non le descrivi?».
Nell’estate del 1957 appena diplomato ricevette un’offerta di lavoro dalla Banca Toscana, ma non era per lui.
Sfidando il parere dei genitori, partecipò all’esame di ammissione alla Normale di Pisa e arrivò secondo. Scelse Giurisprudenza, gli sarebbe garbato difendere i più deboli.
Nel mese di settembre conobbe una ragazza di origini tedesche, l’Angela, figlia del pittore Hans-Joachim Staude, la su’ mamma Renate era architetto. Gli Staude abitavano sulla collina di Bellosguardo; noti per essere una famiglia colta e non convenzionale. Tiziano si ritrovò in un ambiente poliglotta dove arte e musica si mescolavano a tradizioni antiche e colte.
Alla Normale si laureò nel 1961 a pieni voti e per lavoro scelse l’Olivetti.
«Per cinque anni ho fatto il manager all’Olivetti; vi ero entrato come giovane laureato con lode alla Normale. A quel tempo un giovane come me, che veniva da una famiglia povera e che voleva impegnarsi socialmente aveva da scegliere tra quella azienda e il Partito comunista. Ho scelto quella perché rappresentava la modernità… un qualcosa che Adriano Olivetti chiamava comunità.»
Ricevuto l’incarico di reclutare nuovi laureati per le sedi Olivetti all’estero, cominciò a viaggiare prima in tutta Europa, poi in tutto il mondo.
Nel 1965 arrivò in Giappone; fu la sua prima volta in Asia. Visitò anche Hong Kong e il sogno della Cina iniziò a prendere forma.
Nell’autunno 1967 l’Olivetti lo mandò in Sud Africa, a Johannesburg. In questo paese segnato dall’apartheid raccolse materiali, interviste e fotografie per redigere i primi reportage che pubblicò su L’Astrolabio, settimanale della sinistra indipendente diretto da Ferruccio Parri.
Dopo aver viaggiato in Australia e Thailandia, insoddisfatto del lavoro all’Olivetti, prese l’aspettativa, Aveva conosciuto per caso a Bologna un signore che gli permise di accedere ad una borsa di studio per la Columbia University di New York dove scelse il corso di laurea in Affari internazionali.
La borsa di studio gli consentì di viaggiare in tutti gli Stati Uniti. Continuò a scrivere per L’Astrolabio. Raccontò le lotte civili del movimento nero, gli scontri tra gli studenti pacifisti contro la guerra in Vietnam e le forze di polizia, e anche l’allunaggio dell’Apollo 11.
Nel 1968 si trasferì in California frequentando la Stanford University dove imparò la lingua cinese. Si interessò allo studio del maoismo e del comunismo cinese, incuriosito dalla grande eco che la Rivoluzione culturale di Mao stava avendo in tutto il mondo.
In agosto a New York nacque il figlio Folco. Laureatosi per la seconda volta, in settembre rientrò in Italia. Lasciò definitivamente l’Olivetti e cercò un’occupazione come giornalista.
Alla fine di novembre del 1969 iniziò il praticantato nella redazione del quotidiano milanese Il Giorno e all’inizio dell’estate sostenne l’esame di Stato per diventare giornalista professionista. In autunno si confrontò con il direttore confidando in un incarico all’estero, ma la risposta fu lapidaria:
«”Direttore” dissi, “io non ci sto bene in un giornale. Voglio andare a fare il corrispondente in Cina.” E lui, un po’ scherzando, un po’ sul serio, rispose: “Questo giornale non ha bisogno di corrispondenti. L’unico posto libero è a Brescia…”»
Girò tutta l’Europa alla ricerca di un posto di lavoro finché l’occasione arrivò dal settimanale tedesco Der Spiegel di Amburgo, che gli offrì un contratto da free lance per coprire il Sud-est asiatico.
Si trattava di seguire l’ultima fase della guerra del Vietnam. Si era appena stabilito a Singapore con la famiglia, quando scoppiò una grande offensiva in Vietnam. Così comincia la sua carriera da inviato di guerra.
Dal fronte pubblicò il suo primo vero reportage per il settimanale amburghese. Iniziò una collaborazione con L’Espresso, pubblicando importanti articoli e misurandosi sulle stesse pagine con le opinioni di Furio Colombo, Camilla Cederna e Alberto Moravia.
Il 1973 pubblica “Pelle di leopardo, diario vietnamita di un corrispondente di guerra 1972-1973”.
Undici mesi di guerra in Sud Vietnam, quelli decisivi, dell’aprile del ‘72 al febbraio del ‘73, minuziosamente ricostruiti nel diario di un giornalista che ha visitato diversi fronti da Quang Tri al delta del Mekong.
Nel 1975 fu tra i pochi giornalisti non solo ad assistere alla caduta di Saigon, ma a rimanervi per tre mesi dopo la presa del potere da parte delle forze comuniste.
Nel 1976 iniziò a collaborare con la Repubblica, il nuovo quotidiano diretto da Eugenio Scalfari con collaboratori del calibro di Giorgio Bocca, Miriam Mafai e Barbara Spinelli.
Alla fine di marzo pubblicò sempre per Feltrinelli “Giai Phong! La liberazione di Saigon” con cui si aggiudicò il Premio Pozzale Luigi Russo per la saggistica.
Nel 1978 raccolse dapprima con incredulità e poi con sgomento i racconti e le atrocità di ciò che poi si rivelerà essere l’olocausto cambogiano perpetrato da Pol Pot.
Aveva realizzato così a 41 anni un sogno: diventare giornalista, un grande giornalista.

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Categorie: BiografiaLibri

Andrea Natile

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