aung san suu kyiAung San Suu Kyi birmana di Yangon, nata nel 1945, era figlia del generale Aung San, uno dei principali esponenti politici birmani. Dopo aver negoziato l’indipendenza della nazione dal Regno Unito nel 1947, fu ucciso da alcuni avversari politici, lasciando la bambina di appena due anni.

Dopo la morte del marito, sua madre divenne una delle figure politiche di maggior rilievo in Birmania, tanto da diventare ambasciatrice in India nel 1960.
Aug San la seguì ovunque ed ebbe la possibilità di frequentare le migliori scuole indiane e successivamente quelle inglesi.
Ad Oxford, conseguì una prestigiosa laurea in Filosofia, Scienze Politiche ed Economia.

Poi continuò i suoi studi a New York, dove lavorò per le Nazioni Unite e dove incontrò il suo futuro marito, Michael Aris, studioso di cultura tibetana, che sposò nel 1971.
Ritornò in Birmania nel 1988 per accudire la madre gravemente malata.

Quell’anno la Birmania fu scossa da una rivolta che si estese a tutto il Paese. Fortemente influenzata dagli insegnamenti del Mahatma Gandhi e dai precetti buddisti, Aung San Suu Kyi aderì alle proteste, e il suo primo atto fu una lettera aperta con cui chiese al governo la formazione di un comitato per preparare libere elezioni.
A Yangon, tenne un comizio alla Pagoda Shwedagon davanti a mezzo milione di persone, diventando subito un simbolo del movimento democratico nazionale.

Le proteste aumentarono, e il 18 settembre l’esercito mise in atto un colpo di Stato guidato da Saw Maung, un generale particolarmente vicino alle posizioni dell’ex dittatore Ne Win, che impose la legge marziale. I militari stroncarono le proteste con la violenza e ci furono circa 3 000 morti tra i dimostranti.

Nel suo primo comunicato, la nuova giunta militare annunciò la volontà di indire elezioni democratiche con il sistema multipartito.
In vista delle future elezioni, Aung San Suu Kyi, contribuì a fondare la Lega Nazionale per la Democrazia (LND) e fu eletta segretario generale.

Malgrado la proibizione del regime, tenne diversi comizi in giro per il Paese. Poi il regime militare la confinò agli arresti domiciliari senza averla processata. In seguito le diede la possibilità di lasciare il Paese, ma Aung San Suu Kyi rifiutò la proposta di andarsene.
Il regime fissò per il maggio 1990 le elezioni generali, che videro la schiacciante vittoria della Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, la quale sarebbe quindi diventata primo ministro.
Ma i militari mantennero il potere con la forza, annullando il voto popolare.

Nel 1991 le fu assegnato il premio Sakharov per la libertà di pensiero e l’anno successivo vinse il premio Nobel per la Pace, che si rifiutò di ritirare per non lasciare il paese cui non avrebbe più potuto fare ritorno.
Il premio fu ritirato dai suoi figli. Tutti i soldi del premio furono devoluti per costituire un sistema sanitario e di istruzione a favore del popolo birmano.

Gli arresti domiciliari le furono revocati nel 1995; rimase comunque in uno stato di semilibertà e non poté mai lasciare il Paese.
Nonostante le pressioni del governo statunitense, del segretario generale delle Nazioni Unite e di papa Giovanni Paolo II, ai suoi familiari non fu mai permesso di visitarla.
Al marito nel 1997 fu diagnosticato il cancro che lo uccise nel 1999.
Lei non potè andare neanche al suo funerale.

Sotto le pressioni internazionali, le misure restrittive furono allentate; ma, nel 2003, mentre si trovava su un convoglio con numerosi sostenitori dell’LND, alcune persone collegate ai militari tesero un agguato e massacrarono circa 70 attivisti
Lei riuscì a salvarsi solo grazie alla prontezza di riflessi del suo autista, ma fu di nuovo messa agli arresti domiciliari. Da quel momento la sua salute andò peggiorando, tanto da richiedere interventi e ricoveri ospedalieri.

Finalmente il 13 novembre 2010 Aung San Suu Kyi fu liberata.
Il 16 giugno 2012 al ritiro del Nobel per la Pace che aveva vinto nel 1991, tenne un memorabile discorso.

“Onorati ospiti, membri dell’Accademia, miei compagni del popolo birmano,
Sono qui oggi a nome dei milioni di birmani che hanno sofferto per decenni sotto un regime oppressivo. Sono qui a nome dei prigionieri politici che sono ancora detenuti nelle carceri birmane, che sono ancora perseguitati per le loro idee e le loro convinzioni. Sono qui a nome dei poveri, dei diseredati e dei malati che lottano ogni giorno per sopravvivere in un paese che è stato devastato dalla corruzione e dalla violenza…”

Negli ultimi tempi però, sulla testa di Aung San, nel panorama internazionale dell’opinione pubblica, si sono addensate delle nubi.

Per motivi di realpolitik non ha mai voluto condannare esplicitamente il comportamento dei militari che tuttora sono al potere.
La questione riguarda la persecuzione dei rohingya, una minoranza etnica di quasi un milione di persone, 700.000 dei quali sono dovuti scappare nel vicino Bangladesh, in Thailandia, Malesia e Indonesia, bersagliati da attacchi dell’esercito e dai fondamentalisti buddisti.
La situazione è controversa, in quel paese la realtà religiosa è complessa, è un paese con religione di stato buddista.
I dubbi restano.

Testo: Andrea Natile
Immagini Google Search
Libri:

La mia Birmania - Aung San Suu Kyi,Alan Clements - copertina

 


Andrea Natile

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